“Il Sapere Operaio”: Bonezzi e le lotte alla SASIB, la presentazione

Venerdì 15 marzo è stato presentato a Bologna presso la Camera del Lavoro Metropolitana il libro “Il Sapere Operaio – Il ruolo di Giancarlo Bonezzi nel ciclo delle lotte degli anni ’70 alla SASIB e alla Bolognina“, a cura di Maurizio Pulici. Il libro è edito da Editrice Socialmente, con la partecipazione dell’Associazione Archivio Storico Paolo Pedrelli, del Comitato Antifascita “Il Casone Partigiano” e della Fondazione Argentina Bonetti Altobelli.

Alla presentazione hanno preso parte, oltre al curatore Pulici, Anna Salfi, Presidente della Fondazione Argentina Bonetti Altobelli, Elisabetta Perazzo, dell’Associazione Archivio Storico “Paolo Pedrelli”, Francesco Garibaldo, della Direzione IRES Emilia Romagna, Bruno Papignani, Segretario gen. Fiom Cgil Emilia Romagna, Maurizio Lunghi, Segretario C.d.L.M. Cgil Bologna e Maurizio Fabbri, Segretario gen. Spi Cgil Emilia Romagna.

Riportiamo di seguito l’intervento di apertura di Anna Salfi, scaricabile e stampabile in formato Pdf a questo indirizzo.

Gli anni ’60 e ’70 a Bologna sono anni che raccontano, tra l’altro, della  relazione che si sviluppa tra gli operai, la fabbrica e gli studenti nelle scuole e nelle università e che passa da uno scambio d’intese, di sostegno e di lotte comuni ad una rottura che culmina nei fatti sanguinosi della fine degli anni ’70, e, per ciò che ci riguarda, che si concretizza anche nello stesso superamento del valore del lavoro nell’immaginario e nella prospettiva dei ragazzi del ’77.

In questo, analogie e contrasti si esprimono nelle analisi che proprio oggi proviamo a fare dello tsunami rappresentato dalla rivoluzione non violenta emersa dai risultati elettorali dello scorso febbraio 2013, che si dimostra innanzitutto una protesta “contro” ceto politico e corpi intermedi, ma che, pur tuttavia incanala verso le istituzioni ed attraverso l’espressione del voto una richiesta di partecipazione.

Anni 60′, anni 70′ e quelli di oggi sono per certi versi fasi che si assomigliamo se non altro per la necessità che pongono di comprendere senza indulgenze, ma anche senza difese a priori, le istanze sociali e le domande che ad organizzazioni ed istituzioni consolidate, un mondo a noi tutti poco conosciuto, pone.

La presentazione del libro “La vetrina infranta”, avvenuta solo due giorni fa aggiunge al libro che oggi presentiamo, un altro tassello per comprendere e riprendere  i fatti e le contestazioni degli anni’70 durante i quali si fanno fatti concreti le tensioni sociali derivanti della fine del periodo del boom economico, si esplicitano le tensioni sociali a Bologna – città simbolo del ben vivere e vetrina del Partito comunista italiano e si affacciano i primi segnali della fine della centralità della fabbrica nella vita di molti ragazzi e molte ragazze.

Eventi che determinano una rottura sociale in città non ancora del tutto analizzata né, soprattutto, metabolizzata e che è rimasta nella memoria per gli scontri violenti e sanguinosi di quegli anni.
Al tempo stesso, sono stati gli anni della vita comunitaria in una delle fabbriche simbolo della città – la SASIB – nella quale il “sapere operaio” diviene anche sapere sociale e che declina in maniera innovativa l’organizzazione del lavoro, le competenze operaie, l’identità nel lavoro. Il saper fare che diventava saper essere, come giustamente viene detto nel libro.

Un’esperienza concreta che porterà  nella piattaforma rivendicativa del 1978 quello che era il valore ed anche la pretesa del riconoscimento del lavoro “reale” che, se da un lato esprimeva, nelle sue interrelazioni tra operai, impiegati, tecnici, quadri: un esempio  di democrazia del lavoro in fabbrica, dall’altro riusciva a connettere e ad integrare tutti quei saperi diversi per trasformarli in quote di potere negoziale anche al fine di per poter mantenere condizioni di sviluppo e di occupazione.

Tema quanto mai attuale oggi, ancorché declinato diversamente, se si considera l’apporto necessario   alla produzione e alla competitività di impresa di chi il lavoro manuale, tecnico o concettuale – ma sappiamo che queste sono definizioni che non esauriscono le singole e soggettive competenze – lo svolge dentro la fabbrica o fuori, perché appaltate, esternalizzate o affidate a titolari di contratti atipici.

Realtà che ci dicono di quanto necessaria sia una contestualizzazione del pensiero di allora anche, ma non solo, per riuscire a declinare in chiave di attualità il ruolo del contratto collettivo di lavoro e della sua funzione di necessaria inclusività e di come possa declinarsi la centralità del lavoro, anche in chiave identitaria quando il lavoro non c’è o si perde molto facilmente come oggi.

Bisognerebbe recuperare, credo, scritti e pensieri di chi, allora – come Federico Butera – si è per primo posto il tema e le conseguenze prevedibili del superamento dell’organizzazione tayloristica e fordista, come chi, nell’analizzare l’organizzazione aziendale nelle fabbriche, è riuscito a ben evidenziare il nesso imprescindibile tra le competenze, i saperi ed il valore dell’impresa – quella che oggi, molto più prosaicamente qualcuno relega al ruolo sterile di una competitività aziendale astrattamente intesa.

Riprendere  le fila di un ragionamento che sembra perduto e che ci potrebbe aiutare ad arricchire ed aggiornare i pensieri di ieri calandoli nella realtà di oggi nella quale è centrale il rapporto tra organizzazione del lavoro – società – tecnologie ed anche dei modelli organizzativi a rete che dentro e fuori di fabbriche, uffici, negozi, frammentano il lavoro e con questo i diritti anche fondamentali delle donne e degli uomini.

L’esperienza dell’inquadramento unico non è solo un’esperienza felice delle relazioni industriali di questa città o anche del nostro Paese. E’ anche l’esempio tangibile dell’importanza che riveste un risultato professionale e materiale avvenuto in maniera complessiva e collettiva e che si pone in netto con le singole forme di eccellenza come dice Bennati. Un esempio, anche sociale, che mette in luce i limiti del tanto sbandierato concetto del merito oggi in voga che richiede, nelle sue più ampie banalizzazioni, l’antagonismo e la competizione interpersonale nei luoghi di lavoro.

Il libro che oggi presentiamo, che è stato sostenuto sia dalla Cgil dell’Emilia Romagna che dalla Fondazione Argentina Bonetti Altobelli, descrive attraverso la narrazione di chi aveva conosciuto Giancarlo Bonezzi l’esperienza dell’inquadramento unico, rivelandone l’idoneità a porsi come strumento in grado di dare visibilità e concretezza al lavoro industriale che, ancora oggi e forse ancor più oggi, soffre di un mancato riconoscimento non solo economico ma soprattutto sociale.

Attraverso quella particolare prassi contrattuale la conoscenza e l’esperienza operaia – riconosciuta anche materialmente mediante l’attribuzione di quote del salario professionale – riescono a dire meglio di altro del contributo certamente manuale, ma anche creativo e di sapere che alberga nelle piccole e grandi operazioni meccaniche svolte quotidianamente nella fabbrica.

Un modo, questo, anche di narrare la storia sociale che la Fondazione Altobelli ha accolto con piacere, nella consapevolezza che le narrazioni soggettive di cui il libro è ricco possano farci cogliere più che con ogni altro mezzo una fase complessa e complicata della nostra storia più recente.

Un ultimo omaggio alla persona Giancarlo Bonezzi, una figura simbolo che ha vissuto la sua vita personale, politica e sindacale attraverso gli anni ’60 e gli anni ’70 a Bologna, segnata in quel periodo da avvenimenti importanti, a volte tragici e sicuramente centrali nella storia d’Italia.
Un uomo che ha lasciato un segno indelebile nella vita di chi l’ha conosciuto vuoi per le sue inclinazioni personali vuoi per le sue attitudini politiche e sindacali, che ci insegna, ancora oggi,  come l’esempio ed il contributo personale agli eventi ed al loro cambiamento sono elementi indispensabili per la crescita ed il riscatto collettivo.

Ieri un giovane sindacalista impegnato ancora nella dimensione universitaria,  sedendomi accanto, ha letto il titolo del libro dedicato a Bonezzi e, con interesse sincero, mi ha detto: “Bello, interessante, me lo puoi procurare?”. E’ stata per me una bella sorpresa e la conferma che, in fondo al tunnel, appare sempre uno spiraglio di luce”.

Anna Salfi
Presidente della Fondazione
Argentina Bonetti Altobelli